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infermiereQuesta è una storia vera. Corso di formazione. Numerosi interventi di docenza. Mi sono segnato senza modificare niente alcuni concetti espressi. Eccoli:

Bisogna imparare a prendersi cura, non solo a curare.

Il tempo di ascolto è tempo di cura a tutti gli effetti.

Bisogna imparare a pianificare il ritorno a casa e andare oltre il trattamento dell'acuzia.

Importante la valutazione del contesto familiare e di comunità.

Un conto è la malattia, un conto è la salute. Puntare alla qualità di vita e alle aspettative delle persone.

Curare non vuol dire sempre guarire.

Per alcuni pazienti sarebbe meglio partire dai bisogni prima che dalla malattia.

Beh direi che il mandato della professione infermieristica, la sua radice storico culturale, il suo approccio laterale e trasversale al solo trattamento diagnostico e terapeutico (nel senso farmacologico), la famosa e a tratti vituperata visione olistica, è ben rappresentato. La solita lezione di infermieri agli infermieri, perdonatemi la brutalità. Però dimenticavo il particolare più importante: I docenti che hanno detto tutto questo sono medici.

Ora questo aspetto suscita in me pensieri contrastanti e vorrei confrontarmi con voi tramite la pagina facebook se avete voglia. Questi concetti, questa visione, la presa in cura, il prendersi cura, l’approccio oltre la malattia definita per parametri biometrici, sono elementi cardine del nostro agire da sempre. Sono gli elementi che ci hanno sempre caratterizzato nella nostra visione assistenziale; il nostro mandato di advocacy; che si concretizzano nella nostra parte autonoma ed intellettuale attraverso gran parte delle pianificazioni caratterizzando gran parte delle nostre tassonomie scientifiche:

Sono in pratica “Il corpus teorico della nostra disciplina che parte dal presupposto che gli infermieri si occupano di malati in quanto persone ammalate e non si occupino della malattia in senso stretto” (1)

Perché pensieri contrastanti? Intanto perché non so bene se questa visione possa avere una sorta di carattere strettamente connotante la nostra professione anche se nell'evoluzione storico culturale epistemologica è così. Sarei, e credo tutti, ben lieto che le professioni sanitarie in generale si avvicinino a certe visioni e si mettano in auto analisi critica su questo, no? Un nuovo modo di vedere gli interventi e il senso stesso della sanità. Eppure in diverse ore non ho mai sentito dire ai relatori medici che devono parte di questa enunciazione di cambiamento al nostro operato.

Credo, ovvero, che noi possiamo rivendicare l'impatto che l'infermiere e l'infermieristica abbiano avuto in questa rivoluzione di pensiero e dichiarare senza timore di smentita che questi valori che adesso tutto il sistema sanitario si accorge di dover prendere e riprendere sono in realtà i valori (se non il focus disciplinare) dell'infermiere e dell'infermieristica.

Ma non lo facciamo.

Piuttosto, all'opposto, mi sembra che un certo movimento di pensiero al nostro interno tenti di affrancarsene puntando all'evoluzione del patrimonio disciplinare più tecnico e parcellizzato. La mia personale sensazione, che non nasce da questo incontro ma che in questo incontro si avvalora, è che la medicina stia percorrendo una strada che la porta ad avvicinarsi al nostro agito e al nostro agire mentre noi, al contrario, tendiamo a cercare rassicurazioni in competenze esclusivamente tecniche che da tale percorso si allontanano.

In realtà i cambiamenti andrebbero collocati nel mezzo. Il medico che si avvicina ad una presa in cura globale certamente non si discosterà dalla sua profonda conoscenza settoriale dello specifico organo che affiancherà ad una visione più sistemica. Ugualmente noi, incrementando il nostro bagaglio tecnico/operativo, non dovremmo rinunciare alla nostra visione dei bisogni della persona svincolati dalla malattia e mantenere ben saldo il concetto narrativo e soggettivo di salute sul quale intervenire anche con gli elementi scientifici propri della nostra professione.

Lo smarrimento che ho avuto è però quello di dirmi...ma se il medico non teme di allargare il suo paradigma sulla salute/malattia è perché la sua disciplina è forse ben salda (diagnosi e prescrizione terapeutica). Se io invece sento il pericolo che questa rivoluzione paradigmatica possa erodere la mia professione non sarà perché un identità forte del nostro campo di intervento così forte non è?

Abbiamo tanto da dire e molto da rivendicare sul nostro impatto nel sistema salute....dovremmo rendercene conto più spesso.

Abbiamo anche molto da lavorare sulla nostra identità, credo.

Nicola Draoli, 19/06/2017

(1) E. Manzoni – Le radici e le foglie

 

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