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scambio linguisticoLa FNOPI scrive a distanza di tre anni a tutti i media nazionali. “Nonostante il netto miglioramento della percezione della professione infermieristica tra i mass media con una riduzione rispetto al periodo precedente il 2015 di almeno il 70% degli errori nella classificazione del personale e nell'utilizzo dei titoli in fatti di cronaca, esistono ancora sacche di resistenza che non distinguono gli infermieri da chi infermiere non è, con grave danno per la professione e, soprattutto, per il rapporto tra questa e i cittadini assistiti. (http://www.ipasvi.it/attualita/la-fnopi-ai-mass-media-non-confondete-pi--i-nostri-professionisti-id2360.htm)”

Un impegno doveroso per dare riconoscibilità, eliminare confusioni e fraintendimenti, aumentare il rapporto fiduciario con i cittadini e chiedere il rispetto della nostra professione. Ma perché accadono ancora oggi di questi fraintendimenti mediatici? Forse, oltre alla Federazione, ognuno di noi, nel piccolo, può fare molto.

Gli Ordini ad esempio devono cercare la collaborazione preventiva dei mezzi di informazione e promuovere l'informazione stessa. Non a caso, il tema delle figure assistenziali in sanità e della confusione che possono generare sarà il tema di un puntata televisiva di “parola di infermiere” e lo è gia stato in un editoriale di “Infermieri inFORMA”, i nostri due principali progetti comunicativi esterni con TV9 e Il Giunco.

Vi è sicuramente una questione culturale legata ad un passato storico e iconografico molto forte dove in effetti le figure assistenziali in sanità erano meno, ma anche meno definite, ma sopratutto si sentiva meno la necessità di operare dei distingui esistendo comunque in tutte esse, nessuna esclusa e noi compresi, carattere di ausiliarietà e subordinazione alla figura medica.

Il problema di oggi è invece legato al concetto di assistenza e che in esso vi abiti dal laico alla figura tecnica, alla figura socio sanitaria al professionista. Assistere di per sé non è una scienza. L'assistenza in senso lato la esercita chiunque sta vicino a chi ha bisogno, da cui l'etimologia ad sistere – stare vicino. Lo fa la mamma con il bambino, il volontario con il clochard, il figlio con il genitore anziano, l'amico con l'amico bisognoso.

Quando all'assistenza si applica la scienza infermieristica essa diventa assistenza infermieristica ed è quindi appannaggio della professione di infermiere. La differenza prima e ultima (ed è tutta la differenza) è che come scienza assistenziale essa deve comprendere una valutazione che spetta prevalentemente a quel professionista, una capacità di giudizio clinico assistenziale che legittima un atto e quindi la produzione di un esito che solo il professionista ha il diritto e dovere di certificare. Qui sta la differenza, non negli atti. A volte pretendiamo che la società ci identifichi attraverso un comportamento “tecnico” ma così non possiamo liquidare la questione e non ci aiuta per quanto si più facile per tutti dire “L'infermiere è colui che FA questo”. Non è così e non può essere così, perché quando le competenze tecniche migrano (e lo fanno sempre) ci ritroveremo punto e a capo.. Per fare un esempio molto banale, di cui mi scuserete, se la badante può fare assistenza mobilizzando un paziente per prevenire le piaghe da decubito e allertarsi se vede la cute eritematosa, l'infermiere fa assistenza infermieristica prescrivendo il piano di mobilizzazione personalizzato e valutando se quella cute eritematosa è un primo stadio oppure no ed adoperandosi per risolverlo. È una differenza sostanziale e fondamentale e non comprende l'atto tecnico in se.

Il secondo problema è comunicativo e relazionale nell'esercizio quotidiano. Vi è una larga fetta di comunità professionale che chiede una divisa unica per la riconoscibilità. A me personalmente l'idea piace ma, anche qui, non risolve la questione. Doverosa la riconoscibilità mediante cartellini e altri ausili ma se un nostro paziente non sa che siamo i suoi infermieri.....forse è banalmente perchè non ci siamo mai presi lo spazio per presentarci come tali. Quanti di noi si presentano agli assistiti dichiarando nome cognome e qualifica? Quanti OSS invece sono i primi a farlo chiamandosi infermiere? E quanti di noi non intervengono o, peggio, presentano per tagliar corto l'oss con cui stanno lavorando come un collega infermiere? Difficile poi prendersela con i media. Ma è qualcosa di ancora più importante e terapeutico come ci dice la campagna iniziata nel 2015 “buongiorno io sono” lanciata nel Regno Unito da Kate Granger, medico, ammalata di tumore e purtroppo recentemente scomparsa e, con lo scopo di ricordare a tutti coloro che operano in sanità l’importanza di presentarsi a un paziente con  il proprio nome e ruolo sottolinea: "Sono convita - scrive la Granger - che non si tratta solo di conoscere il nome di qualcuno, ma è qualcosa di più profondo, si tratta di creare un contatto umano, iniziare una relazione terapeutica e costruire fiducia”.

Se noi ci lamentiamo che quel paziente non sa che siamo infermieri forse dovremmo prima chiederci se noi  ci siamo presentati come tali, non solo nella forma ma anche nel comportamento.

Il cittadino non dovrebbe invece  avere timore di chiedere a chi ha davanti il nome e la qualifica né noi dovremmo sentirci “indagati” per questo ma anzi contenti di poter presentarci.

La questione culturale sarà forse definitivamente superata non tanto quanto i media non sbaglieranno più ma quando accadrà che un italiano ricoverato farà al medico la domanda che fece un'assistito americano ricoverato in utic durante la sua vacanza italiana e che non scorderò mai:

“Mi scusi... sto parlando con lei che si è presentato come cardiologo. Ma dove è il mio infermiere di riferimento che non riesco ad identificarlo?”

Nicola Draoli.

immagine: http://www.agiresociale.it/site/wp-content/uploads/2013/02/scambio-linguistico.jpg

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