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Così la definisce nel 1951 Carl Rogers, il fondatore del Counseling: “una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato” (1) È sempre molto difficile riconoscere formalmente nelle dinamiche professionali la relazione d'aiuto come un elemento caratterizzante una professione sanitaria. O si fonda indissolubilmente il proprio operato nei meandri scientifici che una professione di relazione d'aiuto offre, come la psicologia, o si tenderà a vedere nella buona relazione un elemento personale, quasi un inclinazione del singolo individuo che porta valore aggiunto nell'agire quotidiano. Direi in prima battuta che la relazione d'aiuto, nel caso dell'infermiere, è disciplina. È LA professione. È identità peculiare di ogni professionista infermiere. Perché non si può parlare di infermieristica senza inquadrarla in un binomio inscindibile composto dall'assistenza e dall'assistenza infermieristica. Assistenza come adsistere, stare vicino, che trova compiutezza nelle sue origine caritatevoli, in ogni focolaio domestico, in ogni gesto di supporto e cura dalla mamma che assiste il bambino al figlio che assiste l'anziano padre, in gruppi sociali più o meno allargati che nei millenni della storia dell'uomo ha sempre trovato spazio di manifesto autonomo e spontaneo pur se disorganizzato. E assistenza infermie ristica come disciplina scientifica fondante e caratterizzante la professione stessa (2). Questo binomio genera, e ultimamente in maniera preoccupante, un errata convinzione che l'infermiere, per riscattarsi nel mondo, debba allontanare l'assistenza per concentrarsi su un percorso rigidamente tenico e iperspecialistico. Un percorso che snatura le fondamenta di ognuno di noi e che relega, al pari di altri professionisti, gli aspetti relazionali composti da empatia, buona comunicazione, tecniche educative, strategie di empowerment, ad appendice – nel nostro caso quasi vestigiale– non dovuta nei confronti dell'utenza ma offerta come valore aggiunto. No. Il valore della relazione d'aiuto per noi non può essere aggiunto ma è valore fondante e identitario. Non è superfluo ricordare che Il codice deontologico all'art 2 definisce come interventi specifici della professione anche interventi relazionali. Il successivo problema è quindi quello di renderlo obiettivabile, non mosso da pietas o intuizione e non improvvisato ma incorniciarlo in un quadro di scienza, metodo e scopo. I percorsi di laurea in infermieristica ben indicano infatti questa strada inserendo elementi di comunicazione, psicologia, antropologia, sociologia nei moduli didattici. Ma non è sufficiente. È nell'agire quotidiano che bisogna che la relazione d'aiuto si evidenzi come agita. Se guardiamo alla raccolta dati infermieristica parte dell'accertamento infermieristico contempla elementi specifici di relazione d'aiuto. La Gordon individua modelli funzionali di salute adatti (percezione di se econcetto di se / modello di ruoli e relazioni / modello di coping e di tolleranza allo stress/ modello di valori e convinzioni) . Da qui si evidenziano Nanda-I (che raccoglie i modelli Gordon), NIC e NOC specifici (che sono correlati alle NANDA). La stessa NANDA descrive la diagnosi infermieristica come un giudizio clinico riguardante una risposta UMANA, di un individuo ma anche di un caregiver, famiglia, gruppo o comunità a condizioni di salute e nei suoi domini individua Promozione della salute, autopercezione, ruoli e relazioni, coping/tolleranza allo stress, principi di vita, benessere, crescita/sviluppo (3). Anche i domini dei NIC – inevitabilmente correlati – hanno tra loro domini come Comportamento (assistenza a sostegno della funzionalità psicosociale e che favorisce i cambiamenti dello stile di vita) Famiglia, Comunità. Ugualmente i NOC hanno domini come salute psicosociale, conoscenze e comportamenti relativi alla salute, salute percepita, salute della famiglia, salute della collettività. Ma anche altri modelli come il fa moso bifocale della Carpenito descrivendo la diagnosi infermieristica la definisce come risposta umana di una persona o di un gruppo. Risposta umana intendendo la complessità che l'umanità porta con se e non solo i suoi elementi biometrici. Tassonomie quindi che certificano la relazione di aiuto. Che la individuano ed evidenziano. Che la rendono agita scientificamente e disciplinarmente. Che la misurano. Questo di per se è banalmente la prova insita e provata che infermieristica è relazione di aiuto nei suoi aspetti disciplinari e scientifici. Ma solo se noi decidiamo di renderla tale. Se noi non la declassiamo a professione tecnica sempre e comunque. Questo valeva ieri. Vale ancora di più oggi. Oggi dove il luogo di cura non è più ospedale o
territorio ma è la persona stessa che si muove fluidamente nei contesti (4). Dove il concetto di salute e malattia è diventato argomento filosofico sempre più astratto, perché ciò che noi definiremmo malato può sentirsi sano e chi definiremmo sano può sentirsi malato. Perché i parametri per curare le persone diventano sempre meno biomedici, sempre meno quantitativi, e sempre più antropologici e qualitativi. Nell'assistenza domiciliare questa trasformazione è tangibile là dove, ad esempio e come nel nostro caso di ex azienda 9 Grossetana, si applicano elementi tassonomici che evidenziano la presenza prioritaria di strategie di coping, autocura, autonomia. Dove si applicano elementi di trasferimento certificato di abilità tecniche sulla per sona e sui cargiver attraverso strumenti aziendali di tracciabilità ed evidenza. Dove l'infermiere non “fa” quando non ne intravede il bisogno ma “insegna a fare” mantenendo l'autorità della supervisione e della certificazione di questo trasferimento di attività. Questa modalità permette il recupero fiduciario nella professione, nel sistema ma soprattutto nell'utenza assistita e nel nucleo familiare e amicale che sono coinvolti a pieno titolo nel percorso di cura. Perchè l'infermieristica non si occupa di curare il singolo ma cura inevita bilmente sempre tutto il contesto sociale in cui il singolo vive o almeno a questo dovrebbe aspirare fatte salve le particolari eccezioni (ma esistono eccezioni? Curiamo solo il singolo davvero in una sala operatoria o in un intervento di emergenza?) L'infermiere diventa un attivatore delle risorse di rete e professionali. Dive nta un professionista che padroneggia la relazione d'aiuto. I documenti di asupicio evolutivo, compreso quello del tavolo tecnico ministeriale, si orientano su questo assunto. Bisogna avere, riconoscerci e far ricono scere le nostre competenze relazionali e sviluppare gli strumenti per certificare questa nostra caratteristic a intrinseca e preziosa. Che è poi la caratteristica che l'utenza ci riconosce. Ci riconosce in ogni documento, intervista telefonica, focus di discussione, quando ci dice e ci chiede cortesia, disponibilità, umanità, soste gno. Non dobbiamo cedere alla tentazione a volte sdegnata nel vedere in queste parole - come purtroppo ho visto accadere – il solo lato caritatevole che rifuggiamo da decenni nella spinta emotiva di sganciarci da stereotipi frenanti la crescita professionali (l'assistenza), ma come una diversa scelta di parole che le perso ne hanno per chiederci assistenza infermieristica. A noi evidenziarla come scienza anche ai loro occhi e rive ndicarla con orgoglio agli occhi di tutti gli altri.

(1) Carl Rogers, La terapia centrata sul cliente, 2013 – Giunti Editore

(2) Edoardo Manzoni, Le radici e le foglie, 2016 – CEA

(3) NANDA-I 2015, Tassonomia II

(4)Paola Arcadi, Bisogni di salute nella sanità che cambia: quali sfide per la professione infermieristica, Pist oia, 12 maggio 2016

 

Nicola Draoli Firenze 23 settembre 2016  - Tavola Rotonda Leopolda: Scienze Infermieristiche

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