Questo sito web utilizza i cookie, anche di terze parti, per migliorare la navigazione. Utilizzando il sito si intende accettata la Cookie Policy.

cartellaQuello che da anni stiamo facendo in Azienda, nell'area Grossetana EXASL9, con i modelli del primary nursing e del care management, le pianificazioni assistenziali con tassonomia Nanda NIC NOC, stanno suscitando sempre più interesse e sempre più spesso colleghi di altre realtà vengono a conoscere il nostro modello manageriale e clinico. L'ultimo momento di condivisione in questo senso è stato il 10 Aprile e mi fornisce occasione per fare una riflessione con voi in merito....e i puristi mi perdoneranno la terminologia.
Quella dell'implementazione degli strumenti per la pianificazione assistenziale nella nostra Azienda è una strada di cambiamento culturale ed organizzativo che è difficile sintetizzare in poche righe e che è a volte fonte di soddisfazione, a volte di critica e a volte di fatica. Quello che da anni studiamo in università difficilmente, in generale, vede una sua reale applicazione nella realtà operativa e questa è una “mancanza “che rischia di mettere in crisi (se non la ha già messa) la professione.  La teoria dovrebbe essere influenzata dalla pratica e la pratica dalla teoria. Purtroppo nella nostra professione spesso le fondamenta teoriche non si lasciano permeare con facilità dalla realtà clinica assistenziale che è intrisa di limiti e variabili indipendenti e dipendenti, alcune dentro il nostro mondo professionale, altre fuori. La teoria cioè si impone come immutabile, sacra e fortemente rigorosa nella sua applicazione e questo non è favorente. A sua volta la pratica è estremamente refrattaria alla teoria. Si rifugia nella consuetudine e nella sicurezza della sua ripetizione senza interrogarsi se ciò che avviene sia giusto o sbagliato, favorente il benessere dei nostri assistiti o no.

Quello che rischiamo tutti i giorni è che delle direttive Aziendali –  in linea con lo sviluppo professionale e il suo rispetto normativo di esercizio – siano così vissute come un contenitore imposto in cui riusciamo con difficoltà a inserire contenuti. Il vulnus che rischia di generarsi è pericoloso per lo sviluppo professionale. Una sottile linea di equilibrio che in tutta franchezza non è favorita dai momenti di esportazione congressuale che sono a volte vissuti dai colleghi in prima linea come distanti dalla cogenza delle “cose importanti” . È un atteggiamento comprensibile ma pericoloso anch'esso.


La formula del 10 Aprile è stata confortante: far parlare e sentir parlare gli infermieri clinici delle cure primarie ,della salute mentale  e delle strutture residenziali territoriali (ODC E Riabilitazione) che hanno esposto non tanto il modello teorico ma i casi reali di  persone che assistono quotidianamente,  evidenziando e rendendone visibili i risultati,  ha sottolineato come, nell'assistenza territoriale (in questo caso ma ovviamente non solo nell'assistenza territoriale),  tale metodo  stia diventando elemento governabile funzionale ai nostri assistiti. Portare elementi di discussione e condivisione ha permesso di farci cogliere ancora meglio il senso di quanto stiamo facendo che diventa nel tempo invisibile a noi stessi per la sua implicita esistenza.

Certamente vi è la necessità impellente di andare oltre, di rendere le pianificazioni più snelle, più gestibili, più semplici, informatizzate, magari cambiando modello concettuale e strumenti differenziandoli nei contesti. Ma più ancora la necessità di restituire. Gli esiti che registriamo hanno bisogno di tornare indietro, devono essere resi visibili, devono impattare nei percorsi. Viceversa sembreranno solo meri atti documentali che vengono prodotti perché dovuti. Sappiamo che questo rischio è già presente in molte nostre attività. Da una parte bisogna chiedere alle organizzazioni di andare verso questo percorso di restituzione, impegnandosi anche a liberare l'infermiere da attività non pertinenti all'assistenza, dall'altra bisogna fare uno sforzo noi professionisti, di caparbietà e di impegno, nel credere in quello che registriamo e certifichiamo e nel chiedere – quando esso non sembra “importante” - non tanto il suo smantellamento ma il suo governo e cambiamento.

Forse il più importante elemento di governabilità deve concentrarsi  sulla prima e unica vera competenza che permette il governo di tutti i nostri strumenti di valutazione e accertamento: la relazione attraverso la conoscenza della persona e di tutte le sue dinamiche sociali, sanitarie, personali nel contesto familiare allargato.

Abbiamo bisogno di fermarci e capire dove siamo e dove stiamo andando partendo dalla realtà. Dalla pratica. Dalla quotidianità. Partendo dalla concretezza di ciò che facciamo ogni giorno. C'è ancora strada da fare? Molta certo. Ma la strada è quella doverosa (più che giusta). Attenzione a non abbandonarla, attenzione a non denigrarla. Critichiamola con propositività. Chiediamo di poterla seguire liberi da legacci non professionali. Chiediamone un governo ancora migliore. Non rinunciamo però ad essere pianificatori e certificatori di esiti da noi prodotti. Al di là dello strumento. Al di là della forma. Al di là della rigidità metodologica. Al di là di tutto.

Pianificatori in primis nella cultura e nell'approccio assistenziale. Gli strumenti pianificatori ci guidano e ci forniscono gli elementi scientifici e le evidenze negli interventi e negli esiti che possiamo utilizzare; Il passo evolutivo dovrebbe essere quello di introiettare tali elementi e saperli vergare in un foglio bianco. In un solo foglio bianco. E non è impossibile. Se chiedessi di elencare su una diagnosi medica di IMA le caratteristiche definenti (i segni e sintomi), gli interventi necessari per risolverlo e gli obiettivi da raggiungere, scommettiamo che sappiamo benissimo elencarli a memoria compresi valori ematochimici e referti elettrocardiografici attesi? E perché non riusciamo a farlo nel nostro specifico ambito? In parte perché siamo ancora molto legati al solo sapere distintivo medico (che certo va conosciuto ed è fondamentale) e in parte perché non siamo ancora abituati a trascrivere in forma organizzata e metodologica il nostro agire autonomo. Ecco perché gli strumenti. Ecco perché prima o poi però gli strumenti dovranno diventare agito spontaneo.

A Grosseto ci stiamo provando da anni grazie all'impegno dei colleghi tutti: clinici, coordinatori, dirigenti. Alcune volte con risultati importanti altre volte inciampando. In alcuni contesti meglio, in altri peggio. Ma ci stiamo provando. E ogni tanto è importante fermarci a riconoscerci quanto stiamo facendo ed è bello anche confrontarsi con chi ci guarda come un esempio da imitare nella nostra - a tratti ingenua - ma virtuosa incosapevolezza di poter essere un esempio.

Nicola Draoli