Ogni professione in ambito socio sanitario ha delle competenze distinguibili. Almeno son ritenute tali da alcune norme e dai professionisti, e spesso anche dagli utenti che hanno aspettative, a volte corrette a volte no, su quale tipo di risposta si attendono da un professionista.
Comunque sia, esse sono destinate a mutare nel tempo: a volte passano tra le professioni, a volte si trasformano per il mutare del contesto epidemiologico, culturale, economico, normativo, per il mutare dei bisogni, per il mutare della professione stessa o semplicemente perché - come accennavo - la domanda soggettiva dell'utenza modifica l'offerta, ovvero impone il modificarsi della professione stessa e delle sue competenze (brutale la terminologia usata, lo so, ma credo sia calzante).
Spesso sono contendibili: a volte dichiaratamente, a volte galleggiando in zone grigie di difficile inquadramento.
Ma ogni professione di relazione di aiuto ha un'ambito di competenza identica e comune.
Quella di fungere da interconnessione nel complicato tessuto sanitario. Spesso noi infermieri, per la nostra prossimità e diffusione, svolgiamo proprio questo ruolo che qualcuno identifica come la concretizzazione operativa dell'advocacy. Ma in realtà ogni professionista si ritrova a svolgerlo e ,ahimè, a volte non ne è nemmeno consapevole.
È colui ovvero che ad un certo punto indirizza. Consiglia. Aiuta a districarsi nel marasma dei percorsi. Accoglie un grido di aiuto confuso e incerto, portatore di smarrimento e fragilità, ne ascolta la singolarità personalizzandolo, e si fa garante di accompagnare proteggendo.
Poi la persona incontrerà molti altri professionisti, alcuni risolutivi e determinanti, ma che altro non saranno che la risposta finale. Ma quel professionista lì, colui che ad un certo punto ha permesso di illuminare la strada e metterla in sicurezza, il tramite determinante, avrà davvero fatto la differenza.
La differenza che passa tra un mare di possibilità inespresse e nascoste e un porto di cura concreto. Quale è il problema e l'amara constatazione?
Che intanto accade spesso per caso. Che quel professionista "tramite" spesso dovrà combattare contro il sistema stesso. Che magari non ne avrà compiutezza o peggio ne avrà solo frustrazione per non riuscire a svolgerlo come vorrebbe. Che soprattutto però, questa funzione, non viene riconosciuta formalmente. Quali indicatori usi per formalizzarla? Quali criteri? Come lo fai pesare negli esiti che si usano per certificare un sistema sanitario? La persona giungerà magari ad un trattamento che a seconda di come verrà effettuato darà un bollino verde o un bollino rosso alla struttura. Ma se quel trattamento arriva come atto finale di un percorso di smarrimento, dubbi e fragilità e che si risolve e concretizza e genera autodeterminazione, convincimento, rispetto ed accoglimento, grazie a quel professionista "ponte"...a quel professionista che fa advocacy... questo...questo come lo valuti?
Ecco perché il valore e le competenze più elevate, quelle che fanno la differenza non nell'esito di cura ma nell'esito della dignità, dei diritti, dell'integrità umana sono difficili da valorizzare, da spiegare, e con esse è difficile valorizzare e spiegare alcune professioni. Tra cui la nostra.
Nicola Draoli 24/01/2018